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Il giorno più bello della mia vita

di Davide Enia

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Un racconto di Davide Enia

Seduti ai banchi di scuola. La maestra Silvana legge il tema, i colpi di tosse aumentano, il respiro le si gonfia in gola. È la vendetta del giovane Davide


Invece oramai non c'era davvero più niente da fare. Stava leggendo il mio tema. Infatti il respiro le si stava gonfiando, i colpi di tosse aumentavano, gli occhiali levati ep-poi rimessi eppoi levati arrìere. Il linguaggio del corpo della maestra Silvana. Avevo imparato a conoscerlo. Le tremavano i diti per la rabbia. Ed era tutto merito mio. Olè, ac-cussì s'insìgna la maestra Silvana. Certo, m'avrebbe fatto una cazziata biblica davanti a tutti e poi avrebbe telefonato a casa e le grida di mia madre e le timpulàte di mio pa-dre. Amen. L'avevo messo in conto. Il centravanti lo sa che da un momento all'altro un fallo bastardo può atterrargli le caviglie. Ma questi sono i pericoli del gioco. Allora, più per vanità che per altro, volli gustarmi appieno il sapore acre di quella imminente, inutile vittoria. Tirai una pallina di carta a Monica. Lei ed i suoi undici anni si voltarono verso me. Lo sguardo era ancora avvilito eppure il suo viso riusciva a mantenere quella grazia, quella eleganza così rara eppur sempre presente in lei. Le sussurrai «Uno a zero per noi, Monica». Lei tentò un sorriso ma non ci riuscì. Uff, le femmine, quanto sono sensibili… Mi girai alla finestra. Il riflesso del suo viso stava ancora lì, sul vetro, e non tremava. Confermava nella curva delle ciglia, nel tremito delle labbra - flebile ma costante - tutta la mortificazione per l'umiliazione gratuita e feroce che aveva subito per col-pa della maestra Silvana, poco prima del tema in classe. Monica non meritava d'esser trattata così. Intanto, dall'altra parte del vetro, oltre le linee del suo viso, c'era un piop-po un po' vecchio e un po' scassato e accanto a lui a fargli compagnia una cabina del telefono gentile e intorno era soltanto dicembre e foglie ballerine nel vento. Allora pen-sai ai golle di Diego Armando Maradona ed un attimino prima che la maestra iniziasse ad urlare come una ossessa il mio nome riuscii a sorridere. In fondo, è giusto andare allo scontro con un'aria di strafottenza che ti illumina il viso: il nemico si innervosisce ancora di più. Poi sentii chiamare il mio nome ripetutamente, così come si lancia un urlo di guerra. Mi alzai in piedi. Ridevo. Ero bello come il corvo che vola.

La cabina del telefono accanto al pioppo. Divenne nel tempo un luogo a me familiare. Là dentro speravo, fremevo, attendevo, mi deprimevo e mi esaltavo. Entravo nella cabina con i gettoni del telefono tenuti tutti quanti nella mano destra. Non li ho mai inseriti in un colpo solo i gettoni, non mi sono mai concesso (non ho mai concesso) il lusso di una telefonata diritta e tranquilla, senza il pressante, fastidioso, allarmato segnale che la linea sta per cadere. Le telefonate con Monica erano segnate da quel BIIIP freddo e distante, nunzio di una fine imminente ed indifferente. Ma è proprio perché ti telefonavo accussì, Monica, che eravamo costretti a cercare, a trovare le parole definitive. Niente fronzoli, nessuna perifrasi. Ma: dire quello che si deve dire. La limitazione del tempo educa alla necessità. Il tempo d'un gettone. Nessuna danza di parole, nessun sol-feggio di concetti, Monica ci vediamo?, Quando?, Subito, BIIIP, Ho casa libera, Arrivo, CLICK.

Monica fu mia compagna fin dalle elementari. A undici anni sviluppò contemporaneamente le forme del corpo ed una profonda passione per il calcio. «Questo tuo formi-dabile mix mi ha innamorato», le ripetevo mentre giocavo a forzare la sintassi «donna, calcio e mìnne: favoloso! Quattro a zero e tutti a casa». Monica rideva e si spostava i capelli dalla fronte con l'indice della mano sinistra, leggiadra in ogni movimento. Io la osservavo tutto zitto, tutto muto. E poi era soltanto uno schiudersi di labbra, le mie e le sue. Nell'incontro delle nostre lingue, nella solitudine senza parole di quel bacio muto niente più al mondo faceva male. Ma non era vero, Monica, non era quello il motivo che mi innamorò di te. Non fu il tuo interesse per il pallone, la tua competenza su Maradona. Non fu la magnificenza del tuo corpo e la gloria delle tue mìnne, sia lode ad esse in saecula saeculorum, amen. No, Monica, no. Furono i tempi del viso, le traiettorie delle labbra, le pause della fronte che mi innamorarono perdutamente di te, da subito. Per-ché ogni lembo della tua pelle ti raccontava con una sincerità spietata e disarmante. Leggevo nella curva delle tue spalle il racconto del tuo presente, la tua felicità improvvisa quando alla radio cantava Baglioni o la tua noia feroce quando pioveva ad aprile. E poi quando aprivi le braccia per raccontarmi un tuo sogno, Monica, sembrava davvero che volavi. Una colomba bianca e bellissima. E tutto era felice in quel tuo movimento di ali che poi si sperdeva in un tempo breve. Il tempo d'un gettone. Ma in quel tempo tu vola-vi. Controllavi serena il tempo che sfugge.
  CONTINUA ...»

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